Dipo Faloyin - L'Africa non è un paese - recensione di Giulia De Martino

Dipo Faloyin

L'Africa non è un paese

Iperborea, collana Altrecose, 2024

traduzione di Tommaso Bernardi

 

Uscito in Gran Bretagna nel '22, ora tradotto in italiano, il testo si presenta, anche graficamente nella copertina di Iperborea, con tre frasi colorate che denotano il contenuto e anche il linguaggio ironico usato dall'autore. Essere cittadino britannico, nato negli Usa, ma vissuto a Lagos e ora residente a Londra la dice lunga sull'ampiezza del suo pensiero.

Il libro, uscito dalla penna del giornalista Dipo Faloyin, che scrive per varie testate internazionali, si presenta come un mix di memoir personali, storia e saggistica, partendo proprio da Lagos, la città in cui è tornato a vivere nella sua adolescenza e giovinezza. Proprio per sottolineare che lui darà il suo contributo a partire dal suo punto di vista nigeriano e non genericamente africano. Perché è questo che l'autore vuole demistificare: l'idea che l'Africa sia un unico paese, appiattito in immagini stereotipate, nate con il colonialismo, trasmesse dalla cultura europea nelle scuole e nella società e diventate in seguito assiomi incontrastati nella conoscenza comune popolare.

Diamo di seguito un campionario di questi luoghi comuni che non tengono conto delle modifiche del tempo che passa, della storia che va avanti, delle circostanze che li hanno generati. Dunque, l'Africano è misero, vive in lotta con animali feroci, tormentato da malattie indicibili, soffocato da una natura ingombrante e pericolosa o da deserti aridi, perseguitato da dittatori folli e sanguinari all'interno di eterne guerre civili ed è soprattutto in perenne attesa di aiuti dai buoni occidentali senza i quali non saprebbe sopravvivere.

L'idea che oggi la maggioranza degli africani viva in città, alcune con una popolazione pari a quella di un piccolo stato, con la previsione che entro il 2030-50, il 70% abiterà in megalopoli; che queste città siano luoghi con scuole, college e università, banche, centri commerciali, ristoranti, locali di divertimento e tanto, tanto traffico stenta a entrare nel comune sentire degli occidentali. Che quasi sempre i cittadini africani, gli animali feroci li vedono in televisione o nei safari per turisti, dato che la cementificazione del suolo ha definitivamente allontanato la natura dalla loro visuale. Che significa? Che non ci sono guerre, che non esistono sacche di miseria e malattia, che non sono presenti dittatori ? No, naturalmente, ci risponde Faloyin e parte con la sua decostruzione di miti e luoghi comuni sull'Africa.

L'autore dedica molto spazio alla conferenza di Berlino del 1884-85 che segnò la spartizione delle sfere d'influenza europee, sotto la bandiera ipocrita della missione educatrice e civilizzatrice dell'Europa cristiana, destinata a sottrarre i poveri negri alle superstizioni e alle crudeltà cui erano dediti: il fardello dell'uomo bianco, per intenderci...L'idea che sconvolgessero equilibri secolari di regni, imperi, popolazioni non toccava minimamente quei politici, mentre tracciavano confini fasulli a tavolino in seguito ad accordi tra le potenze europee. Si separarono etnie che avevano lingue, tradizioni e usi comuni e si misero insieme popolazioni di lingue e culture diverse che da secoli si combattevano, per esempio, nell'eterna lotta tra agricoltori sedentari e pastori nomadi. Ci furono villaggi che non poterono più frequentare luoghi di culti secolari, appartenenti ormai ad un'altra sfera d'influenza e incitati a frequentare missioni cattoliche o protestanti per farsi cristiani, bollando la spiritualità di molte popolazioni africane come demoniaca, superstiziosa e quindi da cancellare. Qualche africano fu invitato a partecipare per dare il suo parere? No, l'unico che lo aveva richiesto, il sultano di Zanzibar, non fu minimamente consultato e invitato...

Tutto questo fu ereditato dai giovani stati all'atto della grande epoca delle indipendenze negli anni '60, consegnati a politici che, perlopiù, avevano studiato in Francia, Inghilterra, Germania, Belgio, Italia ed erano vicini al sentire degli ex-coloni. Inesperienza, ingenuità e pressapochismo si unirono agli entusiasmi dei primi tempi: in pochi anni gli africani dovevano costruire il loro cammino verso la democrazia allora che l'Europa aveva impiegato secoli per arrivarci.

Alcuni eroi che avevano combattuto per l'indipendenza divennero a poco a poco i padroni incontrastati dei loro parlamenti, non ostacolati, anzi foraggiati dalle potenze occidentali che preferirono tenere i loro big men di turno, blanditi con flussi di denaro che servivano a dare potere alla loro famiglia e alla loro etnia, pur di mantenere la presa sugli ex-colonizzati e continuare indisturbati a sottrarre risorse a buon mercato e fare lucrosi affari.

E anche la gente di questi giovani paesi, assemblati in modo problematico senza il loro consenso, sentiva di fidarsi di più di politici della loro etnia, che parlavano la loro lingua, seguivano le loro usanze e si vestivano come loro piuttosto che fare affidamento ai raggruppamenti in partiti. Finita l'unione contro il nemico comune, rappresentato dai colonizzatori, ci si si rese conto di non avere molto in comune, che i legami etnici erano gli unici a cui affidarsi e la strada per una identità nazionale era ancora lontana. Faloyin dedica un bel capitolo a questo argomento dal significativo titolo, La storia della democrazia in sette dittature, con i casi della Somalia e Siad Barre, della Nigeria e Abacha (con il corollario degli igbo del Biafra, gli yoruba del sudovest, i musulmani hausa-fulani del nord ) dello Zimbabwe e Mugabe, della Libia e Gheddafi, del Ruanda e Kagame, dell'Algeria e Bouteflika, di Nguema e la Guinea equatoriale.

L'OUA cercò di affrontare la questione dei confini e degli inglobamenti impropri di territori, ma ben presto capì che era un ginepraio impossibile da risolvere con il dialogo e la diplomazia: ancora oggi si scontano le conseguenze, come per esempio nella questione dell'Ogaden tra Somalia ed Etiopia, del territorio dei Sarawi e il Marocco e tante altre ingarbugliate vicende. Un lascito perciò di guerre continuamente ripetute a intervalli.

Ma si può dire che oggi niente è cambiato? In piedi sono ancora più o meno una decina di dittature, ma gli stati sono 54. Si può dire che nessun paese è progredito economicamente? In realtà ci sono esempi come il Ruanda e il Botswana, il Sudafrica e la Nigeria e tanti altri che hanno compiuto sforzi enormi in alcuni settori economici. La Nigeria, per esempio, con l'industria cinematografica di Nollywood incassa 600 milioni di dollari l'anno e dà lavoro a un milione di persone.

Ma gli stereotipi sono duri a morire e il fardello dell'uomo bianco si è diretto sugli aiuti umanitari, sulla beneficenza diretta a paesi colpiti da una qualche calamità. E' una cosa disdicevole aiutare chi soffre? No, naturalmente, anzi fa onore a chi in buonafede, volontari e gente comune che mette mano al portafoglio, si prodiga verso un prossimo bisognoso. Ma le immagini presentate sono quasi sempre le stesse e mai contestualizzate: bambini affamati e colpiti da varie malattie, madri e volontari in lacrime che chiedono disperatamente aiuto, savane e aridità a non finire… Senza mai una parola sulla radice dei problemi, senza mai dire che della siccità dovuta al cambiamento climatico di origine antropica il continente africano ne è responsabile solo in minima parte, che spesso una carestia viene acuita dal dirottamento delle risorse inviate nelle tasche di dovrebbe distribuirla, vedi il caso della fame in Etiopia che ha riguardato sia il periodo di Hailé Selassié che quello del derg di Menghistu. E' chiaro che in determinate circostanze l'aiuto immediato è utile, ma la rappresentazione di stereotipi negativi impedisce gli investimenti a lungo termine da parte delle aziende occidentali per creare opportunità economiche di ampio respiro che creino autonomia nelle popolazioni locali.

Per questo Faloyin si scaglia, a volte con sarcasmo, contro le campagne di beneficenza promosse da celebrità, soprattutto da gente di spettacolo, Bob Gendolf in testa, testimonial di o.n.g. che sono riuscite nell'intento di raccogliere cifre ingenti su carestie, epidemie, bambini soldato ecc. diffondendo immagini di sofferenze o di sorrisi degli svantaggiati riconoscenti, senza mai spiegare nulla in questi video che Faloyin definisce miserabilisti. “Stiamo cercando di dare ai nostri figli un'istruzione migliore. Stiamo sviluppando i nostri paesi. Abbiamo bisogno di aiuti, ma non devono essere vincolanti. Stiamo dicendo: se volete aiutarci, prima ascoltateci e poi dateci quello di cui abbiamo realmente bisogno, non quello che credete voi”. Gli abitanti dell'Africa non vogliono che si raccontino storie al posto loro con le immagini e le modalità ereditate dal colonialismo.

E arriviamo all'altro polo contro cui polemizza l'autore: le rappresentazioni degli africani nel cinema, soprattutto angloamericano. Qui Faloyin dichiara tutto il suo debito allo scrittore keniota Binyavanga Wainaima, scomparso nel 2019, che con piglio sarcastico e brillante ha descritto nel saggio Come scrivere sull'Africa tutto un repertorio di stereotipi che ha fatto scuola. Anche l’americana nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie aveva avvertito del pericolo di scrivere un'unica storia: ”il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi ma che sono incompleti, trasformano una storia in un'unica storia”.

Rimandiamo al lettore l'analisi di certi film americani per soffermarci sullo straordinario successo di Black Panther del 2018 in cui per la prima volta compare un supereroe nero e una nazione africana inventata, Wakanda, non toccata dalla maledizione dello schiavismo e della colonizzazione, che rovescia l'immagine miserabilista presentando una società tecnologicamente avanzata e prospera. Attori, registi e sceneggiatori del film hanno dovuto difendere e imporre le loro idee alla produzione per realizzarlo. Tutti i ragazzi afroamericani e quelli africani si sono esaltati e riconosciuti in questa rappresentazione inedita. Ma qualche anno prima ci aveva provato anche Eddie Murphey con Il principe cerca moglie.

Invece milioni di nigeriani e non solo, si riconoscono nelle melodrammatiche storie raccontate da Nollywood, che in realtà descrivono i problemi e il trantran della vita di tutti i giorni nelle grandi città: come sbarcare il lunario, come diventare ricchi, come sopravvivere ad amori sfortunati o come superare le difficoltà di matrimoni contrastati, come combattere con delinquenti e truffatori, come affrontare le differenze generazionali, il rapporto fede, tradizioni e modernità. Film, spesso con trame sgangherate, prodotti con budget ridotti all'osso, di qualità tecnica scadente, nati in Vhs e poi, anche con il sostegno di Netflix, passati nei cinema o nelle piattaforme digitali, ma in cui la gente si riconosce.

Stesso discorso per la musica che dall'afrobeat di Fela Kuti allo scimmiottamento di rapper americani è giunta ad un pop in parte gioioso e spensierato e in parte politicizzato, fondato su mix di tradizione e modernità. Come Federico Rampini sul suo libro dedicato alle speranze africane, anche Faloyin erige un inno alla creatività artistica attuale presente nelle città africane: scrittori e poeti, musicisti, artisti, fotografi, pubblicitari e mondo della moda creano un clima effervescente interessante e curioso per chi voglia superare le banalità sull'Africa.

In mancanza di reperti che testimonino la cultura dei passati regni africani, quasi tutti razziati, l'identità dei diversi paesi africani viene tessuta con la rivalità di certe tradizioni gastronomiche o con quella calcistica. Assolutamente divertenti le pagine dedicate al calcio e alla guerra del riso jollof. Cioè a costruzioni identitarie dell'oggi, perché manca la possibilità di riconoscersi nel passato antico: il 90% dei reperti artistico-culturali si trova in musei d' Europa e negli Usa, frutto di saccheggi del colonialismo, costati stragi di vite umane e cancellazioni di interi imperi, impediti in un loro naturale evolversi.

I capitoli del saccheggio e il problema delle restituzione, appassiona particolarmente l'autore che comprende quale sia stato il grave trauma delle diverse etnie africane nel crescere senza un patrimonio visibile in cui riconoscersi: ma anche l'ultima difesa del suprematismo bianco che non vuol sentire parlare di riportare a casa loro i reperti, in nome di un preteso universalismo dell'arte che può far godere anche al di fuori dei confini che li hanno prodotti; oltre alla sfiducia verso i paesi africani di poter accudire con risorse e tecnologia il loro patrimonio. Vi rimandiamo perciò alla nostra recensione sul film Dahomey che parla esattamente di questo; dispiace solo che in questo film non si parli delle ruberie del colonialismo italiano soprattutto in Etiopia, perpetuando inconsapevolmente forse lo stereotipo di italiani brava gente.

Pensate ad un italiano privato dei quadri di Raffaello, delle pitture di Giotto, di Michelangelo o del Caravaggio; pensate ad francese che non possa riconoscersi nella Tour Eiffel o in Notre-dame (come ha effettivamente rischiato con l'incendio); pensate a un nostro telecronista che in occasione dei mondiali di calcio sulla falsariga della frase inappropriata pronunciata ai mondiali in Sudafrica “Un gol del Sudafrica. Un gol per tutta l'Africa” esclami “Un gol per la Francia. Un gol per tutta l'Europa”: inconcepibile, rischierebbe il linciaggio. Pensate a quante persone dicono “parlare l'africano” o a quanti chiedono in buonafede (??!!) se c'è la televisione in Africa o a quanti si meravigliano di vedere migranti africani con cellulari in mano e districarsela benissimo.

Un libro forte, affascinante, di taglio più giornalistico che storico, che usa un linguaggio divertente e sarcastico.

Meditate gente, meditate...

 

 

 

 

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