Filomeno Lopes
Amílcar Cabral
Un ponte fra Italia e Africa
Castelvecchi, 2024
Per costruire una cultura di pace e di solidarietà tra Italia e Africa è necessario conoscere le esperienze di liberazione ed emancipazione che da secoli vedono protagonista il popolo africano, così come i leader che le hanno rese possibili. Filomeno Lopes ci parla qui di figure decisive per la storia dell’Africa e delle relazioni italo-africane, prima tra tutte quella di Amílcar Cabral - del quale quest’anno ricorre il centenario dalla nascita - che era non solo il principale artefice dell’indipendenza della Guinea-Bissau e di Capo Verde: l’impatto del suo pensiero con i dibattiti contemporanei sulla razza, l'identità, la costruzione della nazione, la democrazia, la leadership e l'etica sono più che mai attuali.
Sono ormai trascorsi poco più di cinquant’anni dalla prematura scomparsa di Amílcar Cabral, leader indiscusso e indimenticato del Paigc (1) che, grazie al suo contributo di agronomo, guerrigliero e uomo di pensiero, mise in ginocchio il Portogallo e il suo impero, presente per oltre quattro secoli in Africa, fino all’indipendenza delle colonie lusitane (Angola, Capo Verde, Guinea-Bissau, São Tomé e Príncipe, e Mozambico) avvenuta il 1973 e il 1975 e arricchendo di nuovi significati le nozioni di nazionalismo rivoluzionario e di umanesimo rivoluzionario. Egli concepì e sviluppò un progetto di liberazione nazionale che sul piano delle scelte ideologiche fondamentali è debitore del marxismo; però sul piano strategico e tattico conserva caratteristiche originali e specifiche tali da imporsi come fonte di ispirazione per i movimenti rivoluzionari di liberazione politica, economica e culturale, nei Paesi del Sud del Mondo in generale. Per Cabral organizzare e sviluppare la lotta di liberazione nazionale era possibile non solo attraverso una profonda e basilare conoscenza della “situazione concreta” del Paese, ma anche con un’adeguata formazione teorica e politica dei suoi compagni: “noi siamo dei militanti armati, non dei militari” ripeteva.
La cultura come cuore della lotta di liberazione
Per Cabral, rivoluzionario nazionalista e rivoluzionario umanista, la liberazione nazionale non si limitava alla conquista dell’indipendenza né si concludeva con il gesto di issare la bandiera nazionale, ma implicava la piena emancipazione dell’uomo. Ne deriva che la liberazione nazionale è un atto di cultura in quanto il «dominio imperialista ha come necessità vitale praticare l’oppressione culturale». Si tratta di una tematica costante nelle elaborazioni di Cabral, secondo il quale esiste un’interazione tra la cultura e la lotta, in quanto: “la cultura fondamentalmente ispira la lotta”.
La lotta è innanzitutto quella che colloca il popolo nella sua storia. Nel 1970, Cabral presentò la sua visione de “la liberazione nazionale e la cultura”: un popolo senza cultura non può identificare gli obiettivi della sua liberazione. Le realtà socio-economiche e politiche vissute dalle persone corrispondono a livelli di cultura. Sono tanto gli elementi della cultura quanto gli interessi economici a determinare l’atteggiamento di un gruppo sociale in una lotta per il potere. Pur denunciando il “razzismo primitivo”, Cabral ritiene che la guerra non derivi da un bisogno di ricchezza, ma da una mancanza di cultura.
Vale la pena riportare qui uno stralcio del testo inviato nel luglio del 1972 alla Riunione dell’Unesco a Parigi, di esperti sulle nozioni di razza, identità e dignità: “La cultura non è, né potrà mai essere, un’arma o un metodo di mobilitazione di gruppo contro la dominazione straniera. È molto di più di questo. È nella conoscenza concreta della realtà locale, specialmente di quella culturale, che si basa la scelta, la strutturazione e lo sviluppo dei metodi più adeguati alla lotta. […] la dinamica della lotta esige anche la pratica della democrazia, della critica e dell’autocritica, la partecipazione crescente nella gestione della propria vita, l’alfabetizzazione, la creazione di scuole e di servizi sanitari, la formazione di quadri venuti dall’ambiente rurale o dagli operai, e molte altre realizzazioni che implicano una vera marcia forzata della società sulla strada del progresso culturale. Si dimostra così che la lotta di liberazione non è solo un fatto culturale, ma anche un fatto di cultura”.
Il ruolo della cultura come arma di resistenza alla dominazione straniera, come si è tentato di mostrare, si concretizzava quindi in un duplice sforzo di liquidazione della cultura coloniale e, contemporaneamente, degli aspetti negativi o retrogradi della cultura africana, mirando a creare una cultura nuova basata sulle tradizioni, pur nel rispetto delle conquiste moderne che possono servire all’uomo.
L'affermazione della personalità culturale del popolo dominato, come atto di negazione della cultura dell’oppressore, passa, nell'analisi di Cabral, attraverso varie tappe: “ritorno alle fonti” o “riafricanizzazione degli spiriti” e, infine, in un’ottica più allargata, “decolonizzazione delle menti”.
La “Conferenza Internazionale di Solidarietà con i Popoli delle Colonie Portoghesi”
La visione di Cabral e dei suoi compagni non poteva che basarsi su un cosciente internazionalismo: la loro lotta sarebbe stata pienamente vittoriosa soltanto in un rapporto di forza internazionale favorevole alle rivoluzioni che si andavano moltiplicando nel mondo. (2) Il sottotitolo del libro “Un ponte fra Italia e Africa” è ancora più importante e convincente per il lettore italiano medio. Il Belpaese, storicamente, non ha avuto né il tempo né il modo di maturare un autentico discorso anticoloniale. O meglio, il vissuto coloniale italiano è stato accantonato per esser relegato ai trascorsi di un immaginario fascista dal quale la più parte degli italiani, ancora traumatizzata dagli eventi della Seconda Guerra e dal relativo periodo postbellico, premeva per discostarsi.
In Italia il termine “Resistenza” rimanda innegabilmente alla dimensione contestataria della Seconda Guerra Mondiale, e cioè alla Resistenza partigiana sorta come risposta e reazione al colonialismo politico e sociale del Nazifascismo. Quel concetto, tuttavia, grazie ad un intenso e vivo scambio ideologico e speculativo fra l’intellighenzia italiana e quella delle allora colonie portoghesi in Africa conduce ad un riaggiornamento del termine: come nella formulazione di Amílcar Cabral, “all’azione coloniale risponde sempre una reazione, una forza naturale che resiste, si oppone all’azione e che da sempre è presente nella storia”.(3)
E negli anni sessanta e settanta, l’anticolonialismo e terzomondismo attraversano la società italiana, specie a sinistra. Il PCI con tutte le sue contraddizioni, intrattiene rapporti con i rivoluzionari di mezzo mondo, come faranno anche i gruppi della sinistra extraparlamentare. Da un punto di vista politico e culturale, contribuendo alla legittimazione internazionale dei movimenti di liberazione contro il colonialismo lusitano e alla diffusione della cultura di quei popoli grazie soprattutto alle molteplici attività di Joyce Lussu e Giovanni Pirelli (4), in particolare.
Anticipata da una richiesta della presenza di una delegazione del PCP, dal 27 al 29 giugno 1970, ebbe luogo a Roma la prima «Conferenza Internazionale in appoggio alla lotta dei popoli delle colonie portoghesi», cui avevano aderito 177 organizzazioni politiche, sindacali e religiose in rappresentanza di 64 paesi, (5) che rappresentava il primo riconoscimento internazionale alla lotta dei territori portoghesi d’Africa. Nella Conferenza veniva rimarcata la “necessità di rafforzare in tutti i paesi la solidarietà nei confronti della lotta per l'indipendenza e la liberazione nazionale iniziata nove anni or sono in Angola contro il colonialismo portoghese e da allora estesasi nella Guinea-Bissau e in Mozambico”. Esattamente dieci anni prima della Conferenza romana, il 30 giugno 1960, giorno in cui il Congo otteneva l’indipendenza, il neo Primo ministro Patrice Lumumba aveva ammonito le élites europee: “Chi potrà mai dimenticare che a un nero ci si rivolgeva con il tu, non perché fosse un amico, ma perché il voi era riservato solo ai bianchi”. La Conferenza internazionale aveva superato questo schematismo regalando respiro internazionale alle lotte dei tre leader dei principali movimenti di liberazione dalle colonie portoghesi (6) e rompendo quello che il leader guineano aveva definito il “muro di silenzio elevato intorno ai nostri popoli dal colonialismo portoghese”. Il valore della Conferenza acquisiva prestigio sia per il fatto in sé che per essere stata organizzata in una capitale europea dal doppio peso politico e a causa della presenza del Vaticano.
L’incontro con Paolo VI
In comunione con questa crescita d’attenzione, fu soprattutto nell’ambiente cattolico che giungeva la spinta maggiore in supporto ai movimenti di liberazione lusitane .(7) In particolare, in seguito alla nuova linea dottrinale della Chiesa Cattolica, dettata da Paolo VI nell’enciclica Popolorum progressio, che rimarcava la necessità dello “sviluppo dei popoli” colonizzati, il clima era prepotentemente favorevole a un cambio di rotta epocale, che avrebbe mutato nettamente la percezione nei confronti del Portogallo.
Marcella Glisenti, all’epoca direttrice della Libreria Paesi Nuovi, alla fine della seconda giornata dei lavori, ricorda: “quando andai al tavolo della presidenza per dire a Cabral che Paolo VI li avrebbe ricevuti in udienza privata, rise di un riso strano di gioia e incredulità e mi disse, rivolgendomi ancora quel sorriso raggiante: ‘ecco il primo giorno della nostra creazione come nazione’.” Il leader del Paigc riconosceva a papa Montini la forza del suo impegno a fianco dei popoli africani. E La conferenza di Roma e l’Udienza con papa Paolo VI hanno segnato “una tappa nuova della lotta sul piano internazionale perché ha causato nel nemico colonialista uno spaesamento che non ha saputo nascondere”.
La scelta di papa Montini, che causò un incidente diplomatico con il Portogallo, rappresentava un segnale chiaro e inequivocabile. Dimostrava il suo valore storico tanto per la lotta dei popoli quanto per il prestigio della Chiesa in Africa e nel mondo. Un filo collegava l’azione pontificia montiniana al discorso da lui tenuto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 4 ottobre 1965, nel quale aveva fatto propria la “voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso”.
Che cosa dobbiamo ricordare in conclusione? Ogni buon stratega deve padroneggiare la teoria rivoluzionaria, avere esperienza pratica sul campo e, soprattutto, avere una conoscenza culturale degli errori del passato e delle impasse del presente per trovare soluzioni.
Senza riuscire a portarla realmente a termine, a causa del suo assassinio il 20 gennaio 1973 a Conakry, da parte di agenti imperialisti infiltrati, Amílcar Cabral ha condotto una delle lotte di liberazione più equilibrate a livello politico, militare, mediatico, diplomatico, economico, culturale e scientifico, con l’ambizione di gettare le basi di una “democrazia rivoluzionaria” che si confrontasse con il razzismo, il colonialismo e il capitalismo con la sincerità di “non far credere a facili vittorie”. La lotta per l’emancipazione è davvero lunga e l’opera di Amílcar Cabral, se non è una scorciatoia, è senza dubbio un acceleratore su cui le nuove generazioni devono tenere ben piantati i piedi.
La vitalità del testo non emerge soltanto dall’abilità stilistica dell’autore nel ricostruire con completezza e ricchezza di dettagli l’intero mosaico situazionale, rievocando cioè i fatti e gli attori coinvolti. Piuttosto, parallelamente al testo emerge, silenzioso ma persistente, un gioco di prospettive: le parole aprono scorci sul XIX secolo, ma il lettore più attento non può esimersi dal fare un raffronto con la realtà italiana coeva del XXI secolo applicando quegli stessi paradigmi critici che l’Italia ha visto nei confronti della cultura Europea di allora razzista, intollerante e colonialista e alla cronaca di oggi, del presente.
NOTE:
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PAIGC (Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo Verde)
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Numerosi furono gli scambi e le relazioni con i movimenti di liberazione dell’Africa e dell’Asia, nonché con le giovani rivoluzioni di Cuba e dell’Algeria. Dall’incontro con Che Guevara nel 1965 e con Mehdi Ben Barka, nacque l’idea di organizzare la Prima Conferenza della Tricontinentale che avrà luogo l’anno successivo (il 6 gennaio 1966) a La Havana. In quella sede, Cabral pronunciò il suo discorso su “L’arma della teoria”- presentato a nome dei tre movimenti contro il potere colonialista portoghese, ovvero il PAIGC, il MPLA et il Frelimo - che rappresenta uno dei testi di riferimento per comprendere a pieno il suo pensiero rivoluzionario.
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Vincenzo Russo, Il colonialismo portoghese, le lotte di liberazione e gli intellettuali italiani, 2020, 33.
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L’impegno dell’intellettuale torinese nella causa dell’indipendenza algerina (1954-1962) quasi un decennio prima era culminato con la traduzione e pubblicazione per Einaudi de I dannati della terra impreziosito dalla prefazione di Jean-Paul Sartre, cui anni dopo seguiranno le Opere scelte di Frantz Fanon.
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La Rádio «Voz da Liberdade» (Radio Voce della Libertà), una stazione radio in portoghese del Fronte patriottico di liberazione nazionale che trasmetteva da Algeri, riportava la lista delle rappresentanze: «Angola, Belgio, Francia, Gran Bretagna, Guinea e Capo Verde, India, Iraq, Giappone, Madagascar, Namibia, Olanda, Palestina, Polonia, Repubblica Araba Unita, Repubblica Federale tedesca, Romania, Senegal, Africa del Sud, Sudan, Svezia, Siria, Unione Sovietica, Rodesia, Jugoslavia». Inoltre, era presente una delegazione portoghese, costituita da un rappresentante del PCP, un delegato del Movimento mondiale della pace e «del FPLN guidata da Pedro Soares, membro della Frente Revolucionária Portuguesa».
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Agostinho Neto che guidava il Mpla (Movimento Popular de Libertação de Angola), Marcelino dos Santos a capo del Frelimo (Frente de Libertação de Moçambique) e Amílcar Cabral, segretario generale del Paigc (Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo Verde)
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Angola, Mozambico e Guinea-Bissau, Capo Verde, São Tomé e Príncipe