Fatima Daas
La più piccola
Fandango libri, 2021
traduzione di Giorgia Tolfo
Dando una prima occhiata al testo, abbastanza breve, composto di circa 160 pagine, ci sembra di avere tra le mani uno dei tanti autori, figli di immigrati ma nati in Europa che stanno riempiendo le librerie, anche italiane, di autobiografismo, rivolta e lotta per i diritti, voglia di affermarsi e di contare: sicuramente un indice di problema sociale, non sempre di buona letteratura. Ma il libro di questa giovanissima, scritto a 25 anni, ci sembra diverso per molteplici motivi.
Anche qui si reclama una libertà che si sente mancare: la libertà di essere francese ed algerina, lesbica peccatrice e musulmana, appartenente ad una periferia, quella di Clichy- sous bois,(abitata da arabi ed africani ) con tutto ciò che comporta di negativo, ma anche a Parigi e alla sua cultura, ai suoi celebri quartieri e locali modaioli. E’ la prima volta, ci sembra, che l’omosessualità viene rivendicata non contro un islam omofobo, ma insieme ad una appartenenza religiosa vissuta seriamente e dalla quale non si può e non si vuole prescindere. Finora le rivendicazioni di omosessuali musulmani non avevano implicato l’idea di peccato che invece l’autrice sembra accettare. L’idea di una identità multipla, ormai rivendicata da tutto il movimento LGBTQIA, rischia di sfasciarsi in una liquefazione di contorni identitari, rivelatrice di contraddizioni non facilmente sanabili. Tuttavia l’autrice trova una sua strada che ci viene rivelata dalla continua anafora “mi chiamo Fatima”, premessa ad ogni capitoletto del libro: è dunque il proprio io l’unica garanzia di poter supportare tutta la complessità delle sue innumerevoli facce.
Da sempre l’anafora indica un procedimento poetico musicale ed è proprio la musicalità del linguaggio che viene ricercata dall’autrice, attraverso la ricerca delle parole giuste da usare, discutendole quando non le trova del tutto adatte a ciò che vuole esprimere. Parole che non riguardano solo il francese, ma anche l’arabo e l’inglese: tre lingue che esprimono la differenza degli ambiti da cui derivano. L’arabo algerino del contesto famigliare e l’arabo classico del Corano, il francese della scolarizzazione e dell’amore per la cultura, per esempio la predilezione per Marguerite Duras e Annie Ernaux, l’inglese delle canzoni e del rap, di cui si citano alcuni brani. La ripetizione delle scene è un’altra modalità per metterci a parte del suo mondo anche se in una forma priva di cronologia: a volte il lettore si trova davanti la bambina che è stata, insieme alla giovane che sperimenta la sessualità con le donne; vediamo la scuola dell’infanzia che si tramuta nei corsi preparatori per l’accesso alle Grandi scuole e anche le discriminazioni cui vengono sottoposti i giovani di origine straniera; poi c’è la ribellione della figlia al padre analfabeta, fanatico e violento e alla madre, capace di mostrare affetto solo attraverso il cibo che cucina incessantemente insieme al calore che vorrebbe dall’amata Nina, mentre lei stessa si rifugia in amori molteplici, perché incapace di amare.
La ragazza della periferia consuma tre ore al giorno sui mezzi di trasporto per andare a scuola, all’ospedale ( è infatti affetta da una grave forma di asma), all’università o a Parigi a ballare: a Clichy non c’è fermata di metro o treno e occorre prendere un bus per poterli raggiungere. Fatima osserva i comportamenti dei francesi, degli stranieri e scrive un taccuino immaginario, mentre ascolta musica con le cuffie e i commenti acidi della folla costretta a stare affollata insieme, raramente gentile con il prossimo.
Quale è la radice dei suoi mali che non la fa essere una brava figlia, una buona musulmana, una allieva brillante e corretta, una premurosa amante accogliente? Forse il fatto che non ha avuto una educazione ai sentimenti e alla sessualità in famiglia, forse il contatto continuo con gli stereotipi cui deve far fronte fin dall’infanzia di bambina carina e ubbidiente, brava nei servizi casalinghi, forse il razzismo esplicito e latente che corre su quei mezzi di trasporto frequentati ogni giorno. O forse una religione vissuta molto nelle formule e poco nella quotidianità reale della vita, un bisogno di attaccarsi a qualcosa di proprio nel momento in cui l’intolleranza contro l’islam dilaga soprattutto in Francia .
Non lo sa la giovane Fatima e cerca aiuto nell’imam di quartiere e in uno psicologo musulmano, con l’espediente di presentare il caso di una amica diventata lesbica. Ma la sentenza è implacabile: Dio è misericordioso con tutti ma l’omosessualità è contro natura.
Fatima trova da se stessa la sua terapia: scrivere. Le è sempre piaciuto scrivere e da ragazzina le dicevano che era dotata. Scriverà di come abbia cercato di definirsi, incontrando il fallimento di ogni definizione, capendo che si deve combattere non solo per liberare tutte le espressioni della sessualità umana, ma anche contro l’islamofobia e il razzismo. Nel testo, il finale propone una sorta di conciliazione con la madre: per una volta lei non le offrirà solo i dolci che ha cucinato ma un quaderno per scrivere, dal momento che la figlia le ha confessato la sua intenzione di volersi esprimere attraverso la scrittura.
Fatima si sobbarca la fatica di tenere tutto insieme, la complessità e la voglia di trovare delle soluzioni, l’Islam e l’amore per Nina, la sua appartenenza-estraneità alla Francia e all’Algeria. Non è un romanzo né un saggio né una semplice autobiografia, ma una sorta di prosa poetica dolente, a volte disperata, con qualche spiraglio di speranza…