Mathieu Belezi - Attaccare la terra e il sole - recensione a cura di Rosella Clavari

Mathieu Belezi

Attaccare la terra e il sole

Feltrinelli, 2024

traduzione di Maria Baiocchi

 

 

L’autore di questo testo non è di origine africana, tuttavia data la qualità dell’opera e il fatto che si svolga in terra d’Africa, in Algeria durante la guerra coloniale francese verso la metà dell’ ’800, merita un momento di attenzione.

La crudezza del linguaggio, delle immagini che scavano nel profondo dell’anima dei personaggi, hanno fatto parlare giustamente di “un’epopea della follia umana”(L’Obs) ed è quanto mai attuale il tema della guerra, del sangue versato di vittime innocenti e di giovani militari assetati di potere. Le voci narranti - che si alternano in capitoli ossessivamente ripetuti nel titolo “Ardua fatica” e “Bagno di sangue”- sono le voci della sofferente e dell’esaltato di guerra.

La sofferente è Séraphine, giunta lì col marito e i tre figli, una contadina piena di dubbi e rimorsi sul fatto di avere abbandonato Marsiglia e accettato di partire per l’avventura coloniale verso Annaba (Bone per gli invasori) per garantire un futuro ai propri figli. D’altronde il governo ha promesso loro sette ettari di terra da coltivare... Il flusso delle sue parole è intervallato come una giaculatoria da “santa, santissima madre di Dio”, esterrefatta di fronte alla miseria in cui è costretta a vivere, un luogo arido, sporco, dove la terra è difficile da coltivare, dove il sole abbatte le forze e il pericolo del colera o degli assalti degli arabi rivoltosi non offre alcuna speranza di avvenire. Aiuta a sopravvivere l’amore per la sua famiglia formata anche dalle sorelle Celestine e Rosette cui è teneramente legata.

L’altra voce narrante è quella del giovane militare esaltato di sangue e di guerra che esegue implacabilmente gli ordini del suo capitano - è lui a forgiarli così i suoi militari intimando loro che “non sono angeli”- . Così assistiamo alle violenze contro gli algerini con assalti improvvisi nelle loro case (gourbis) e agli stupri compiuti sulle loro donne; per motivi d’onore e religiosi gli uomini si ribellano venendo soppressi, mentre alcune donne preferiscono uccidersi. Ma questa è solo una piccola parte del bagno di sangue cui continuamente assistiamo sia da un versante che dall’altro della scena di guerra. Il giovane soldato reagisce contro qualcosa che risuona nel suo orecchio (non è la voce della sua coscienza propriamente ma, sembra, in un contrasto surreale, la voce degli storici o degli atti della commissione che condannano la barbarie avvenuta per opera loro) richiamando alle necessità del momento, di chi ha il potere, ripetendo la frase monito del suo capitano “no, non siamo angeli”.

Un libro di cui non si può parlare più di tanto se non invitando a leggerlo per la composizione così lucida e implacabile nel delineare la strada del dolore e del male e le visioni diverse tra loro di coloro che la percorrono. Ha la statura e lo stile del poema, il poema degli ultimi della terra. Vi si riconosce la voce universale del rifugiato, del deportato, dell’emigrante scampato al naufragio ed entrato in un centro di accoglienza.

L’autore, nato a Limoges, si può definire un cittadino del mondo: ha insegnato in Louisiana negli USA, ha vissuto in Messico, Nepal, India, in alcune isole greche e italiane e oggi vive tra Roma e Parigi. A partire dal 2008 ha raccontato in varie opere narrative la conquista dell’Algeria (avvenuta tra il 1830 e il 1857) e la violenza coloniale . In una recente intervista ne Il Manifesto ( 6 luglio 2024), Belezi sottolinea che ogni opera di colonizzazione è stata intrapresa in nome di una cosiddetta missione civilizzatrice, risoltasi spesso in sete di potere e sfruttamento, questo da parte dei Paesi d’Europa tra il XIX e il XX secolo. Per quanto riguarda la Francia, dai tempi della Terza Repubblica (1870-1940) fino alla seconda guerra mondiale e anche dopo, il comportamento coloniale e razzista ha predominato e anche le opinioni a lui favorevoli (sia da destra che da sinistra). Trovo molto importante, alla stregua del concetto di “riconciliazione” che ha permesso in SudAfrica di guardare avanti, riflettere sulla frase dello storico Patrick Boucheron citata da Belezi, nell’intervista suddetta : “riparare non significa cancellare la ferita, ma continuare a guardarla per ciò che è, e affrontare il taglio che ha prodotto”.

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