Shubnum Khan - Lo spirito aspetta cent'anni - recensione a cura di Rosella Clavari

Shubnum Khan

Lo spirito aspetta cent’anni

Neri Pozza, 2024

traduzione dall’inglese di Simona Fefè

 

Conosciamo già questa scrittrice di origini indiane che vive in Sudafrica, per via di una prima prova narrativa nel 2011, Le radici altrove, da noi recensita. Dobbiamo dire che rispetto all’asciuttezza del primo testo, qui l’autrice si effonde in una storia intrisa di magia, tradizioni ancestrali, vissuti personali, intrighi, con grande capacità narrativa.

Sono le cose a reclamare la loro presenza, a sperare di essere trovate e tutto si snoda a partire dai diari scoperti in soffitta dalla giovane protagonista Sana: “ha trovato una forma in questo mondo cui si adatta solo lei: un stanza che la stava aspettando”. Lei si è trasferita da poco dall’India a Durban con il padre vedovo in questa casa che prima era una reggia lussuosa, ora una decadente struttura abitata da alcuni inquilini. Il padre cercava una tenuta maestosa nel tratto orientale della costa sudafricana (“perché a occidente ci sono troppi bianchi”); la ragazza silenziosa e problematica, ha tutto il tempo di perdersi a girovagare tra le tante stanze che ancora stanno in piedi. Le fanno compagnia gli inquilini e le inquiline di questa casa misteriosa tra cui l’enigmatico Dottore, che chiamano proprio così, con un passato doloroso anche lui vedovo e senza una gamba in seguito a un bombardamento nel campo rifugiati in Sierra Leone dove prestava servizio medico. Poi ci sono due vicine, Razia Bibi e Fancy, in lite tra loro per vecchi rancori familiari, la domestica Pinky che parla di sé in terza persona come i bambini molto piccoli, l’ex diva cantante Zuleikha ammantata nel suo silenzio e nel fumo della sigaretta e soprattutto il padre Bilal Malek che tenta di portare un po’ di gioia intorno dedicandosi alla cucina.

Parallela alla storia reale, quella ripercorsa con la memoria, grazie al diario ritrovato, e immaginata da Sana, delle persone che prima vivevano proprio in questa casa tra gli anni ‘20 e ‘30.

Il padrone dell’epoca, Akbar Ali Khan, le diede il nome Akbar Manzil che ancora campeggia, inciso nella pietra, sopra l’ingresso; la volle magnifica con un giardino intorno e tanti animali, giraffe, pavoni, scimmie, uccelli esotici e anche un leone addestrato. Vi abita con la moglie Jahanara, scelta dalla sua famiglia indiana, e con la madre, Grand Ammi che dirige tutta la vita della casa e della servitù addetta al suo decoro. Ma ecco l’inaspettato e travolgente amore che lo prende per la giovane operaia della sua fabbrica, Meena e così decide contro il volere delle sue donne di prenderla come seconda moglie.

La storia è concentrata proprio sulla personalità di questa donna molto bella e indomita, osteggiata perché non musulmana oltre che di estrazione sociale inferiore: lei dapprima pensa di durare poco in quella casa, fa resistenza agli inviti di Akbar, dopo comincia a ricambiare il suo amore e decide di restare con quest’uomo affascinante che le legge poesie dei grandi poeti persiani e urdu, che la culla tra le sue braccia e la conduce a passeggiare sulle rive del mare.

Questa storia d’altri tempi Sana la apprende dal diario di Meena che ritrova tra le tante cose nascoste e impolverate nella soffitta; lì vive anche un jinn, (un tenero spiritello) che custodisce i segreti della casa, segretamente innamorato anche lui di Meena. Ma anche nella vita di Sana c’è un segreto, una presenza che non ha mai rivelato a nessuno, quella della sorella nata siamese e distaccata da lei con un intervento chirurgico in seguito al quale è morta. Il suo spirito la segue dappertutto….vorrebbe condurla nell’aldilà, non sopporta l’ingiustizia del loro distacco.

La storia è raccontata con passione e delicatezza, piena al suo interno di tante altre piccole storie. I luoghi dell’India e dell’Africa sono solo vie di transito, non sono analizzati se non nei loro profumi e colori, si percepisce il razzismo strisciante all’interno dei parenti indiani per differenze di ceto più che nei confronti dei neri o bianchi sudafricani. Tuttavia un punto dolente viene dichiarato: il passaggio di Meena dal Sud dell’India dove era nata e il Sudafrica è per lei e la sua famiglia motivo di speranza per un futuro migliore ma ben presto si accorgono “che i britannici erano gli stessi, in Sudafrica come in India, che la loro pelle scura avrebbe avuto sempre lo stesso valore. […] Era ancora schiavitù ma in una confezione con il fiocco”.

Una storia a parte è quella del jinn, lo spirito che ha attraversato tante parti del mondo, partendo da Delhi dove viveva in mezzo agli uomini senza nascondersi, e giunto infine in Sudafrica, decide di fermarsi lì catturato dalla magia del canto di Meena; ma continua a muoversi dopo la sua dipartita mettendo in contatto le persone e con il suo comportamento ci fa pensare alle parole dette da Sana “l’amore non è una cosa che se ne va per sempre”.

Nel contempo ci accorgiamo che Meena costituisce un punto di riferimento per Sana come figura materna che a lei è mancata, perché sua madre era chiusa nel suo mondo fatto di libri e distaccata dalla famiglia. Tra gioie e dolori, intrighi e tragedie, la storia si dipana e incontra la tragedia del presente dove non manca il colpo di scena finale e una sorta di riappacificazione dei coabitanti di Sana. Possiamo dire in conclusione che per l’autrice e per noi la lezione del passato, delle tradizioni personali, trova un felice connubio con la conoscenza del presente storico cui ci affacciamo.

Potresti leggere anche...

Informativa Cookie

Noi e terze parti selezionate utilizziamo cookie o tecnologie simili come specificato nella cookie policy. Puoi acconsentire all’utilizzo di tali tecnologie chiudendo questa informativa, proseguendo la navigazione di questa pagina, interagendo con un link o un pulsante al di fuori di questa informativa o continuando a navigare in altro modo.

Cookie Policy