Scholastique Mukasonga - La donna dai piedi nudi - recensione a cura di Rosella Clavari

Scholastique Mukasonga

La donna dai piedi nudi

Utopia, 2024

traduzione di Giuseppe G. Allegri

 

In questo testo, che risale al 2008 e viene pubblicato da noi solo quest’anno, l’autrice vuole rendere omaggio alla memoria di sua madre e anche alla sua terra di origine. La protagonista è infatti la madre, Stefania, che chiama con il suo nome di battesimo: così ci ricorda che anche le sue sorelle come lei avevano due nomi, il primo di battesimo e l’altro assegnato dal padre alla nascita “il cui significato sempre soggetto a interpretazioni, pareva delineare il nostro futuro”. Mukasonga è quindi l’altro nome ruandese di Scholastique. Ma non sappiamo il nome ruandese di Stefania.

Stefania rappresenta in questo romanzo il legame con le proprie tradizioni, con il proprio ruolo di madre, moglie, amica che si dispiega in tante piccole attività: impegnata a coltivare nell’orto il piccolo appezzamento assegnato a ciascun figlio, a dare consigli alle amiche anche di consulenza matrimoniale, a tentare di creare una via di fuga sotterranea nel rifugio dove loro, tutsi, sono stati relegati dagli hutu, impresa che si rivela impossibile. Tutto quello che fa si traduce in lei in una parola “salvare i figli”. Sì, perché sia lei che il marito decidono di rimanere nella loro terra, non possono nemmeno immaginare l’idea di emigrare come invece faranno i figli poiché “i figli devono sopravvivere”.

Lì sono rimasti e sono stati trucidati come tanti altri membri della famiglia di Mukasonga (trentasette in tutto) dai guerriglieri hutu nell’eccidio che tristemente la storia ci ha consegnato. La scrittrice ha dei flash ricorrenti nella sua memoria tra cui una frase della madre: “quando morirò il mio corpo dovrà essere coperto” e vive con un senso di colpa questo monito anche perché al momento della loro morte - i figli ormai lontani in terra straniera - i loro cadaveri non verranno coperti; allora decide lei di tessere con le sue misere parole un sudario immaginario per il corpo assente della madre. Attraverso questo strumento di riscatto dal dolore e dalla violenza che è stata per lei la letteratura, sa che può offrire solo questo alla povera madre.

Il racconto si svolge nella regione del Bugesera dove sono stati deportati i tutsi e dove si formano pian piano dei villaggi con delle baracche di fortuna, ma la loro condizione rimane invariata, sono solo degli inyenzi, degli scarafaggi pronti ad essere schiacciati dagli scarponi dei militari hutu che compiono frequenti irruzioni nei villaggi. Una seconda vita viene ricreata dai tutsi sui ricordi della loro casa, dei loro orti, delle vacche che andavano a pascolare e che ora non possiedono più.

C’è ancora qualche pianta di caffè, la manioca importata dai belgi ma che non può competere davanti al sorgo, la vera pianta ruandese, il re dei campi da cui si ricava l’essenziale del cibo ma anche la birra; c’è la grande pianta di ricino su cui cadono le “lacrime della luna”, triste presagio secondo le interpretazioni dei saggi. La casa di mattone dove vivono da deportati non soddisfa la madre che si è costruita dietro di essa la vera capanna ruandese, l’inzu, dimora di paglia intrecciata alla maniera dei cestai (che oggi non si trovano più in Ruanda).

L’inzu è una casa piena di vita, di risate di bimbi, di cantilene e racconti mormorati, dei chicchi di sorgo che scricchiolano sotto la pietra che li frantuma. Nell’inzu, non sono gli occhi a guidare, ma il cuore. Poi c’è il retrocortile dove si lavano la madre e le figlie, dove si ricevono le amiche, o ci si dedica allo “spidocchiamento”.

La madre le ha insegnato ciò che aveva custodito del Ruanda di un tempo, ma l’autrice si rammarica che i suoi segreti non è riuscita a tenerli tutti a mente. Si ricorda le sue cantilene tristi e le affascinanti narrazioni. Stupendo è l’inserto sul “paese dei racconti” (pag.103) dove l’autrice in pochi tratti dispiega la meraviglia e la logica delle favole ruandesi che si oppone al racconto pseudo-scientifico dei Bianchi sull’origine dei tutsi: i bianchi “hanno trovato tracce di tutsi in tutto il mondo”; i ruandesi si sono fermati al Kenya e all’Abissinia.

Anche in condizioni precarie il loro villaggio ha il suo piccolo parlamento: agli uomini toccava l’esercizio della giustizia e delle questioni esterne, alle donne toccava l’istruzione, la salute, l’economia, le strategie matrimoniali. Una delle più grandi sofferenze per le madri del villaggio è non poter curare i figli con i loro rimedi naturali e con le piante medicinali; lì c’è un muganga, un medico che ha solo due rimedi: aspirina e sciroppo per la tosse. Il pane e il latte mancano, così l’ikumuri, il burro di vacca usato come crema di bellezza per il viso e i capelli anche se non ci si può specchiare per ammirare i risultati se non nel riflesso della pozzanghera.

Fa sorridere, ma in una società prevalentemente agricola e pastorizia come quella ruandese per definire bella e da sposare un donna le si attribuiscono tutte le grazie che definiscono la vacca che inoltre è fonte di ricchezza per chi la possiede. Il dono di una vacca convalida un accordo matrimoniale così come leggiamo nell’umoristico racconto del matrimonio combinato per il fratello Antoine; i genitori hanno acquistato con tanti sacrifici una vacca (la dote del marito) per poi veder sfumare tutto; Mukasine, la bella sposa verrà rapita da un benestante del luogo, non senza una sorta di compiacimento da parte dei suoi genitori. Antoine tuttavia troverà la sua futura sposa che gli darà ben nove figli “per la grande felicità di mia madre. Pensava che almeno qualcuno sarebbe sopravvissuto e avrebbe perpetuato la famiglia. Si sbagliava”. Un finale che riporta alla tragica realtà di morte di quella terra. Sappiamo che dopo la fuga in Burundi nel 1973, la scrittrice si è stabilita in Francia da dove nel 1994 ha avuto notizia del massacro in Ruanda.

Ci chiediamo come fa l’autrice a conservare la grazia, l’ironia, la dolcezza della memoria dei ricordi familiari, avendo conosciuto l’atrocità di una guerra che le ha sottratto trentasette membri della famiglia. La memoria bella è proprio quello strumento che permette di superare il dolore della morte e dell’esilio ma alla base di tutto è la forza dell’amore che vince; nell’autrice vince, consentendo un riscatto attraverso la scrittura che le ha permesso di perpetuare la memoria della sua terra violata. E noi siamo grati alla sua resistenza dietro cui si cela l’impresa di tante “madri coraggio” ruandesi, donne portatrici di vita.

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